Il palazzo Galdieri Bartoli
Il palazzo Galdieri Bartoli fu fatto edificare nel 1870 da Pasquale Galdieri su tipologie architettoniche ispirate alla reggia di Caserta.
Il sontuoso palazzo si erigeva al centro di Conca e costituiva una risorsa economica per il paese. Nell’edificio vi erano quadri, affreschi e sculture di scuola napoletana del tardo ottocento.
Fu fatto crollare dalle truppe tedesche nell’ottobre 1943, prima della ritirata, impiegando ben 38 casse di dinamite.
Il fondo su cui sorgeva il palazzo, unitamente al Parco Pineta, fu donato nel 1961 dalla baronessa Virginia Galdieri alla Parrocchia di San Pietro Apostolo che, rispondendo ai desiderata della donante, nel 1963 vi realizzò un asilo infantile.
La scoperta delle “cantine”
Nell’agosto 2006, Marco D’Errico e Vincenzo Simeone, con l’assistenza di Giuseppe Simeone e Roberto Urgolo, nel corso dei lavori di trasformazione dell’ex asilo in ostello della gioventù, notarono un passaggio che li condusse agli ambienti terranei del palazzo.
Galleria Fotografica
Foto di Marco D’Errico e Giuseppe Simeone
Qualche notazione tecnica sulle “cantine”
A cura dell’arch. Gennaro Farinaro
Gli scatti fotografici recuperati nel 2006 restituiscono quanto resta degli ambienti terranei del palazzo, per i quali si è supposta la funzione di cantine. Certamente avevano anche una funzione di sostruzione delle poderose, soprastanti murature. L’altezza dell’edifico era considerevole, tenendo conto non solo dei livelli fuori terra, impostanti dall’ingresso, ovvero dalla quota della piazza antistante, ma anche dell’ulteriore livello seminterrato i cui accessi esterni si aprivano sui rimanenti prospetti. Tale livello risultava dotato di numerose finestrature verso gli esterni, come si evince anche dalle foto d’epoca. Il livello in questione, sulla scorta della dimensione dei vani, degli spessori murari e della pressoché totale mancanza di aperture, dovrebbe quindi riferirsi alle sottostanti sostruzioni.
Le immagini prodotte nel 2006, quando fu possibile introdursi in quanto di esse rimane in essere, mostrano un fitto intreccio di archi di scarico che imposta una serie di vani voltati a botte, il cui andamento certamente richiama quello delle soprastanti murature portanti, perimetrali ed interne. Benché non rilevati e dove formanti riseghe con il perimetro degli ambienti, gli archi mostrano un notevole spessore, stimabile in non meno di 70-80 cm.
All’incrocio di due ambienti coperti con volta a botte, si conforma un vano coperto da una volta a crociera, secondo i canoni dell’architettura classica, ripresi dall’architettura neoclassica che aveva chiaramente ispirato i costruttori del palazzo. Le volte a crociera risultano leggermente rialzate, lasciando a vista le ghiere degli archi di imposta delle volte a botte. Su di esse, in particolare, ma in generale su tutte le partizioni murarie che caratterizzano gli ambienti sopravvissuti, è possibile apprezzare il livello di lavorazione dei conci tufacei utilizzati per l’edificazione, la cui precisione ha consentito la formazione di commessure di malta ridotte al minimo. Caratteristica che rivela l’alto livello qualitativo richiesto alle maestranze, anche per gli ambienti di servizio e per quelli in questione, certamente non destinati ad essere visti dai più.
L’utilizzo di conci perfettamente squadrati e posti in opera, del resto, oltre che appannaggio delle opere di pregio realizzate nel corso dell’Ottocento, quando si passò definitivamente all’impiego di conci apparecchiati per filari (abbandonando l’uso di bozze apparecchiate per cantieri), risulta precisa scelta operata dai progettisti, con l’utilizzo per l’intero edificio della locale pietra tufacea, lasciata faccia a vista. Le caratteristiche e la qualità di queste membrature architettoniche evidenziano, ancora una volta, episodi in grado di mettere in luce le notevoli capacità delle maestranze, certamente in buona parte locali, impiegate nel mondo dell’edilizia nel corso dell’Ottocento e fino alla scorcio del secolo successivo.